Imola ha ottenuto il titolo di “Territorio Equosolidale”, un riconoscimento ritirato a Padova dall’assessora Daniela Spadoni nell’ambito della campagna internazionale Fair Trade Towns. Secondo il comunicato ufficiale, si tratta della celebrazione di 25 anni di impegno nel commercio equo e solidale, garantito anche dalla presenza storica della Bottega imolese e da una serie di iniziative legate alla sostenibilità, alla giustizia sociale e alla pace. Tutto molto bello, almeno sulla carta. Ma cosa significa davvero questo titolo? E soprattutto: quanto c’è di reale impegno e quanto invece di marketing etico confezionato con cura?
Il meccanismo è semplice: una città diventa “Fair Trade Town” quando aderisce a un percorso che prevede delibere, acquisti pubblici di prodotti equosolidali, iniziative nelle scuole e un certo numero di esercizi commerciali che vendono articoli con il marchio Fairtrade. Un marchio che, è bene ricordarlo, è gestito da una grande organizzazione privata internazionale che certifica prodotti e territori, e che ricava profitti proprio da queste certificazioni. Più città entrano nel circuito, più aumenta il consumo di prodotti “equosolidali” e più cresce il giro economico del marchio stesso. Nel sistema rientrano multinazionali che difficilmente possono essere associate alla narrativa del commercio “giusto”.
I benefici per i produttori sono spesso gonfiati, minimi studi indipendenti (Università di Londra SOAS, Notre Dame, ILO) dimostrano che ai contadini arriva in media solo l’1-18% del sovrapprezzo che paghiamo noi consumatori. Il resto se lo mangiano intermediari, costi di certificazione e margini delle aziende. In certi casi (caffè, cacao) il fair trade ha persino creato sovrapproduzione e fatto crollare i prezzi per chi non è certificato. È una “colletta dei buoni sentimenti” che non cambia il sistema, ti fanno sentire moralmente superiore perché compri il cioccolato con il bollino a 4 € invece di 1,50 €, ma non attacca le cause strutturali della povertà (accordi commerciali iniqui, dazi, potere delle multinazionali).
https://www.theguardian.com/global-development/2014/may/24/fairtrade-accused-of-failing-africas-poor
Anche il linguaggio utilizzato nel comunicato del Comune di Imola si inserisce in pieno nella retorica tipica del mondo “equosolidale”: sostenibilità, pace, giustizia, Agenda 2030, operatori che “investono nella sostenibilità”, giovani “sensibilizzati” e così via. Parole ripetute fino a sembrare un format preconfezionato, identico da Bologna a Milano, da Trento a Roma. Non a caso, la maggior parte dei territori certificati appartiene a città amministrate dal centrosinistra. È difficile ignorare la componente ideologica: un certo tipo di narrazione progressista, molto anni ’90, che continua a essere riproposta senza mai uscire da un perimetro rassicurante.
https://www.maastrichtuniversity.nl/news/fair-trade-premiums-how-much-reaches-farmers
Il punto non è negare l’impegno sincero della Bottega del Commercio Equo di Imola o delle persone che ci lavorano. Né mettere in discussione l’utilità di promuovere un consumo più consapevole. Ma il bollino di “Territorio Equosolidale” rischia di essere prima di tutto un’operazione di immagine: un modo per il Comune di mostrarsi al passo con i valori globali, per le associazioni di rafforzare la propria presenza, e per il marchio Fairtrade di ampliare il proprio mercato. I benefici reali, concreti, misurabili, restano invece molto più difficili da individuare.
Imola ora potrà esporre con orgoglio il cartello “Territorio Equosolidale”, certo. Ma dietro quel cartello ci sono un po’ di idealismo, un po’ di business e una buona dose di propaganda morbida. Se la si vuole abbracciare, va bene. Ma almeno è utile sapere davvero di che cosa si tratta.
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