Quante volte, leggendo le notizie sulla violenza contro le donne, i giornali — specie quelli di sinistra — hanno omesso la nazionalità degli aggressori? Un po’ per evitare stigmatizzazioni, come è successo durante la campagna elettorale di Veltroni a Roma con il caso Mailat, e un po’ per non incrinare la narrativa della industria dell'”accoglienza” secondo cui “gli immigrati sono tutta brava gente”, finendo così per nascondere un dato cruciale per comprendere fino in fondo il fenomeno e proteggere davvero le vittime.
In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, l’Arma dei Carabinieri ha diffuso un dettagliato report sull’attività in Emilia-Romagna: 3.967 “codici rossi”, 283 arresti, oltre 3.800 denunce, centinaia di divieti di avvicinamento e allontanamenti d’urgenza. Dati che possono fare impressione e che potrebbero raccontare un’emergenza quotidiana, se non si guarda al numero della popolazione, ma manca un elemento essenziale: chi sono gli autori di questi reati? Quanti sono cittadini italiani? Quanti stranieri? Di quali Paesi? Con quale status migratorio? etc, etc, cosi via.
L’Arma, coerentemente con una prassi ormai consolidata nelle istituzioni italiane, non fornisce queste informazioni. Una scelta comprensibile sotto il profilo della prudenza comunicativa – per evitare l’associazione automatica tra immigrazione e criminalità – ma che finisce per depotenziare l’analisi e ostacolare politiche di prevenzione mirate. Tuttavia, il silenzio delle istituzioni non protegge gli immigrati onesti; al contrario, alimenta sospetti, diffidenza e, certamente, razzismo. Se non si riconosce che in alcuni contesti culturali esistono modelli familiari particolarmente rigidi e che la violenza sulle donne può assumere connotati specifici legati all’origine, alla religione o alla tradizione, non si può intervenire efficacemente né con la mediazione culturale, né con percorsi di integrazione consapevole. Senza dati disaggregati per nazionalità, restiamo al buio. E nel buio, nessuna politica funziona, se non quella dell’“industria dell’antiviolenza”, che se ne approfitta di questi dati per ricevere fondi pubblici ma che non risolve il problema. Anzi, la situazione si aggrava ulteriormente: le famiglie colpite da questi provvedimenti rischiano di essere permanentemente separate, con conseguenze drammatiche non solo per le presunte vittime di violenza, ma anche per i figli. Non poche volte le denunce per violenza sulle donne finiscono con una sentenza che stabilisce che non c’è stata violenza, ma solo un’esagerazione da parte della donna e di chi insisteva per la denuncia, al solo scopo di trarne un vantaggio economico dalla querela.
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