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Fiano, a Imola chiedeva censure, a Venezia si scopre censurato…

C’è qualcosa di profondamente ironico — per non dire ipocrita — nella vicenda accaduta a Venezia, dove Emanuele Fiano è stato contestato e zittito da un gruppo di attivisti comunisti pro-Palestina. L’ex deputato del PD ha reagito indignato, parlando di “fascismo”, di “intolleranza”, di “violenza contro la libertà di parola”. Parole forti, condivisibili nel principio. Peccato che a pronunciarle sia proprio lui.

Sì, lo stesso Fiano che nel 2017, durante un comizio ala festa dell’Umidità di Imola, sosteneva con foga la necessità di punire penalmente la propaganda di certe idee, invocando leggi che sanzionassero chi diffonde “ricette ideologiche” ispirate a Goebbels o chi parla — citiamo testualmente — di “razza bianca” o “razza africana”. Non si trattava solo di condannare l’apologia del fascismo (già vietata dalla legge Scelba), ma di estendere la punibilità anche alla semplice espressione di pensieri considerati “pericolosi” per la sua o loro democrazia.

Insomma: ieri era Fiano a voler decidere chi poteva parlare e chi no. Oggi, quando qualcuno fa lo stesso con lui, improvvisamente la libertà di parola diventa sacra. C’è un termine per questo: coerenza a intermittenza. Un vizio ricorrente di quella parte politica che si erge a paladina dei “valori democratici” solo quando non viene toccata personalmente. Quando “demoncratici” censurano gli altri, è civiltà. Quando censurano loro, è fascismo.

Fiano ha scoperto quanto è facile essere messi a tacere in nome di una “giusta causa”. Ma la verità è che la cultura dell’intolleranza, quella che lui stesso ha contribuito a legittimare con la sua retorica da moralizzatore, torna sempre indietro come un boomerang. E quando il vento cambia direzione, la censura che hai applaudito ieri diventa la tua gabbia di domani.