A quasi un anno dall’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023, un articolo pubblicato sul New York Times da Daniel Bartov, esperto riconosciuto di studi sull’Olocausto e genocidio, getta una luce inquietante sugli sviluppi del conflitto tra Israele e Gaza, parlando apertamente di genocidio perpetrato dall’esercito israeliano contro il popolo palestinese.
Bartov, cresciuto in una famiglia sionista, con una lunga esperienza come soldato e ufficiale nell’IDF e una carriera accademica dedicata allo studio dei crimini di guerra e dell’Olocausto, ha inizialmente esitato a usare il termine “genocidio” per descrivere le azioni israeliane, ma di fronte ai fatti e alle dichiarazioni pubbliche dei leader israeliani ha dovuto ammettere che la realtà sul terreno sembra configurare proprio questo crimine.
Secondo l’articolo, dopo aver ordinato lo sfollamento forzato di circa un milione di palestinesi da Rafah, l’ultima città relativamente integra nella Striscia di Gaza, l’IDF ha sistematicamente distrutto gran parte della città e delle infrastrutture civili — abitazioni, ospedali, scuole, impianti idrici e culturali — contribuendo a rendere Gaza praticamente inabitabile. Il Primo Ministro Netanyahu e altri esponenti di governo hanno pubblicamente parlato di “annientamento totale” e “trasformare Gaza in macerie”, con richiami a passaggi biblici interpretati come incitamenti a un’estirpazione totale della popolazione.
Questa situazione, accompagnata da una crisi umanitaria profonda — con decine di migliaia di morti, in particolare bambini, centinaia di migliaia di sfollati e feriti, e una generazione di piccoli amputati e traumatizzati — ha portato diversi esperti di diritto internazionale e studiosi di genocidio a classificare le azioni israeliane come un genocidio vero e proprio.
“La mia conclusione ineludibile è diventata che Israele sta commettendo genocidio contro il popolo palestinese. Cresciuto in una famiglia sionista, avendo vissuto la prima metà della mia vita in Israele, servito nell’esercito israeliano (I.D.F.) come soldato e ufficiale, e trascorso la maggior parte della mia carriera a studiare e scrivere su crimini di guerra e sull’Olocausto, è stata una conclusione dolorosa da accettare, e che ho resistito a riconoscere il più a lungo possibile. Ma insegno corsi sul genocidio da un quarto di secolo. So riconoscerlo quando lo vedo.” Daniel Bartov
Il termine “genocidio” fu definito dalle Nazioni Unite nel 1948 come “l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Il punto cruciale, sottolinea Bartov, è la dimostrazione dell’intento genocida, espresso non solo a parole ma anche attraverso i fatti sul campo. A differenza di altri crimini di guerra, il genocidio mira a distruggere il gruppo come tale, impedendone la sopravvivenza culturale, sociale e politica.
Israele respinge tutte le accuse, affermando che le sue operazioni sono legittime e che Hamas utilizza i civili come scudi umani. Tuttavia, la portata della distruzione sistematica e le dichiarazioni pubbliche sembrano indicare un disegno politico volto a spazzare via la presenza palestinese a Gaza o a costringerla a una fuga impossibile.
L’articolo denuncia inoltre un inquietante silenzio e divisione all’interno delle comunità accademiche e commemorative dell’Olocausto: mentre alcuni studiosi di genocidio riconoscono l’esistenza di un genocidio a Gaza, molti storici dell’Olocausto si mantengono cauti o negano tale definizione, talvolta accusando i colleghi critici di antisemitismo.
Questa frattura ha profonde implicazioni morali e politiche, poiché mette a rischio l’integrità della memoria storica e il ruolo dell’Olocausto come monito universale contro ogni forma di inumanità. L’uso strumentale della memoria dell’Olocausto da parte di Israele per giustificare azioni militari aggressive, spiega l’autore, rischia di trasformare il “mai più” in una formula vuota, permettendo atrocità in nome della propria storia di vittima.
Il futuro di Israele, avverte Bartov, dipenderà dalla capacità del paese di fare i conti con questa realtà e di trovare un percorso di pace che riconosca la convivenza tra israeliani e palestinesi. La continuazione su una strada di violenza e autoritarismo potrebbe portare alla trasformazione dello Stato in un regime di apartheid, destinato a non durare. Solo un cambiamento profondo, sostenuto dalla comunità internazionale, potrà salvare Israele dalla perdita irreparabile della sua legittimità morale.
Infine, l’articolo auspica che una nuova generazione israeliana possa vivere senza l’ombra opprimente della memoria dell’Olocausto usata come giustificazione, affrontando invece la realtà del genocidio a Gaza per costruire finalmente una convivenza di pace, uguaglianza e dignità per tutti gli abitanti della regione.