L’intervento del sindaco Daniele Manca in Consiglio comunale
IMOLA – “E’ l’ignoranza il nostro principale nemico. Per questo ringrazio i ragazzi e le ragazze del Polo Liceale per l’approfondimento che hanno presentato oggi nel Consiglio Comunale solenne per la Giornata della Memoria sul tema dell’antisemitismo, sulla storia e le cause.
Dei giovani si parla troppo spesso in maniera impropria, facendo riferimento alle loro devianze, invece è un orgoglio vedere i ragazzi impegnarsi ad accrescere le proprie conoscenze.
Scuola e istruzione sono i nostri pilastri, il nostro principale investimento per il futuro.
Dobbiamo favorire lo sviluppo dei talenti, premiare i meriti, favorire la diffusione della cultura perché chi è in grado di farlo possa dare quel qualcosa in più che serve per costruire una comunità più forte, salda nelle proprie radici, nel ricordo dei Giusti e dei sopravvissuti che con coraggio e determinazione hanno raccontato quello che hanno vissuto nell’inferno dei lager.
Quest’anno celebreremo il 70° della Liberazione: mi auguro possa essere un’altra occasione di riflessione con i giovani e con le scuole su pagine di storia che hanno un interesse anche per noi oggi e per la nostra idea di comunità.
Confesso che una forte sensazione di sgomento mi assale ogni anno, in questa ricorrenza, a leggere, ascoltare, ripensare alle esperienze fatte, alle testimonianze raccolte in questi anni.
È sempre psicologicamente difficile affrontare il ricordo di una pagina così nera della storia umana. Eppure lo ritengo indispensabile, perché la pace nasce dal coraggio della verità. Dobbiamo saper guardare l’orrore dritto negli occhi per imparare a gridare “mai più” con tutte le nostre forze.
Ogni persona dovrebbe farlo, soprattutto i ragazzi, che rappresentano il futuro della nostra comunità. Gli anticorpi comuni contro la violenza, l’odio e la sopraffazione si formano infatti soltanto se le singole coscienze sono formate, attraverso la conoscenza, al rifiuto delle logiche distruttrici e se prevale sempre la ricerca della giustizia.
Purtroppo dobbiamo prendere atto che l’umanità è stata capace di tutto questo, di quella “demolizione di un uomo” di cui scrive Primo Levi nella tremenda, straordinaria testimonianza che è il suo libro “Se questo è un uomo”: «Siamo arrivati in fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga».
A 70 anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz, ci ritroviamo a interrogarci ancora una volta sul come e sul perché si sia potuti arrivare a tanto. Una domanda tanto più impellente oggi, a pochi giorni di distanza dai fatti di Parigi, davanti alle immagini atroci che provengono dalla Nigeria, con il fiato sospeso per le minacce quotidiane dell’Isis o di Al Qaeda a ricordarci che la libertà, la sicurezza, la dignità di ogni uomo e di ogni donna, il riconoscimento dei diritti, primo fra tutti quello alla vita e all’inviolabilità morale e fisica, sono ben lontani dalla piena attuazione.
Il 21° secolo non è, come speravamo, libero dai pregiudizi razziali e religiosi, c’è ancora chi perseguita e uccide altri uomini solo perché “diversi”.
Ripercorrere i passi della storia non è dunque, ancora una volta, un esercizio di accademia, né di memoria fine a se stessa, ma una chiave di volta per leggere il presente, per prevenire, per fornire alle generazioni che non hanno vissuto quei fatti gli elementi utili a capire e ad agire di conseguenza. Anche questo non è scontato, se pensiamo ai tentativi di negare l’accaduto, all’indifferenza o in alcuni casi all’insofferenza che i sopravvissuti hanno dovuto sopportare negli anni. Quella di Elisa Springher, ad esempio, che racconta ne “Il silenzio dei vivi” di avere tenuto per decenni un cerotto a nascondere il numero tatuato sul braccio per paura di non essere accettata.
Il compito primario delle istituzioni, secondo lo spirito della legge istitutiva della Giornata della Memoria, è tenere insieme due aspetti inscindibili di questa ricorrenza: “ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati…”.
Ecco perché anche noi, nelle iniziative legate a questa celebrazione, cerchiamo di unire all’analisi delle cause che portarono all’Olocausto, l’ideologia di fondo che lo concepì, le complicità e i silenzi, le sottovalutazioni e le omissioni che favorirono l’aberrante progetto nazista, l’obiettivo di rendere onore alle donne e agli uomini che scelsero la strada più difficile, quella di opporsi alla follia assassina.
I Giusti, coloro che rischiarono la vita per salvare cittadini ebrei dalla deportazione e da una prospettiva di morte quasi certa, sono la testimonianza che una scelta è possibile anche nelle condizioni più estreme. Una scelta di giustizia, di compassione, di solidarietà.
I nomi di Amedeo Ruggi, di don Giulio Minardi, della famiglia Bizzi, di Giuseppe Maiolani, i cittadini imolesi che compirono questa scelta, sono il nostro punto di riferimento: a loro va la nostra riconoscenza, non solo per le vite salvate (e ogni vita ha un prezzo inestimabile), ma soprattutto per aver permesso ai valori umani di sopravvivere in un periodo buio della nostra storia, di prendere il sopravvento sull’indifferenza e sulla paura. Questi sono i semi di riscatto che hanno continuato a lavorare nell’inverno della guerra, con le lotte partigiane e la resistenza di tanti cittadini, producendo frutti e diventando i pilastri della stagione costituente, sui quali poggia l’Italia moderna.
Ecco perché non possiamo e non dobbiamo dimenticare, se vogliamo conservare memoria delle nostre radici, se è nostra intenzione impedire che queste tragedie possano ripetersi.
Per Imola, Medaglia d’Oro al Valor Militare, questi valori assumono un significato ancora più forte, identitario, in particolare in questo anno di celebrazioni solenni in occasione dei70 anni dalla Liberazione. Non vogliamo perdere questa particolare occasione per riaffermare una scelta di campo forte, in linea con quella compiuta dai padri costituenti e dai protagonisti della ricostruzione del nostro Paese.
Una scelta di coerenza con i progressi sociali, economici, culturali di questi anni. Progressi che devono andare a beneficio di tutti e non di pochi, insieme con le conquiste sociali che devono tradursi nella garanzia di servizi davvero universali. Mi riferisco all’istruzione, alle prestazioni socio-sanitarie, alla possibilità per ciascuno di professare il proprio credo, di vivere la propria identità politica, di genere, senza subire persecuzioni o discriminazioni.
Mi riferisco allo sforzo che, in particolare in questo lungo periodo di crisi e di grandi cambiamenti, siamo chiamati a fare per cercare di attirare ogni possibile opportunità di lavoro e di investimento nel nostro territorio. Sappiamo bene che nella disuguaglianza, nell’ingiustizia sociale e nella povertà si annidano i rischi più insidiosi per la coesione di una comunità, dunque è questo il nostro prioritario terreno di impegno quotidiano, che deve accomunare istituzioni, organizzazioni economiche, sindacati, tutti i soggetti in grado di dare un contributo concreto.
Abbiamo il dovere, inoltre, di promuovere il dialogo ad ogni costo e ad ogni livello, innalzando il livello di conoscenza reciproca e proponendo una sintesi alta di principi comuni ai quali attenersi per una convivenza civile pacifica. Su questo terreno di legalità e di giustizia si gioca davvero la partita dell’integrazione, non sulla diffidenza o pensando di erigere muri. La storia purtroppo ci insegna cosa accade se si permette la costruzione di muri per isolare pezzi di comunità o se si creano le condizioni per il diffondersi di sentimenti negativi verso particolari etnie, gruppi religiosi, più in generale stranieri.
La Shoah ebbe inizio con le leggi razziali, che in Italia furono introdotte nel1938, aimitazione di quelle tedesche già in vigore. Quelle leggi ebbero l’appoggio di molti intellettuali e, complice certamente il regime totalitario, non suscitarono l’opposizione di massa che forse oggi ci aspetteremmo. Furono, nella migliore delle ipotesi, tollerate, o vissute con indifferenza, perché quella sorte “toccava ad altri”.
Norberto Bobbio, allora insegnante a Padova, raccontò che durante la guerra vide nel bar che frequentava abitualmente un cartello di divieto di accesso per gli ebrei: «Adesso strappo quel cartello, dissi tra me e me. Ma sono uscito senza averlo fatto. Non ne avevo avuto il coraggio. Quanti atti di viltà, di cosciente viltà, come questo abbiamo commesso allora?».
È la domanda che dobbiamo porci tutti, perché questo è il senso di questa Giornata. Una Giornata che deve essere messa in relazione con l’oggi, con l’Italia che vogliamo, con l’Europa che cerchiamo di costruire. Nel dopoguerra sono stati fatti molti passi avanti. Non dimentichiamo che Paesi pochi anni prima nemici hanno dato vita alla Comunità Europea con il Trattato di Roma del 1957. Un grande risultato, che ha permesso a tutto il nostro continente di crescere nella democrazia, nella libertà, in una visione unitaria dei rapporti economici, nel cammino difficile verso l’eliminazione delle diffidenze reciproche.
Ma il lavoro, lo sappiamo tutti, non è compiuto. L’Europa politica non esiste ancora e le forze centrifughe hanno trovato, soprattutto negli ultimi anni, terreno fertile per rafforzarsi e minacciare il percorso unitario.
Ben vengano dunque queste occasioni per riflettere sulle tragedie del passato, per ricordare le vittime e onorare chi non si piegò, ma soprattutto per rafforzarci nell’impegno di ogni giorno a favore di un nuovo patto di comunità, costruito sulla legalità, sul riconoscimento reciproco e sul rispetto delle regole.
Se riusciremo nell’intento potremo dire di avere imparato la lezione della storia e di averne tratto gli insegnamenti necessari per assicurare alle nuove generazioni un futuro di pace.
Daniele Manca