di Brigida Miranda
Sono una di quelle che davanti alla blasfemia si è sempre indignata. Perché è nel mio Dna avere un “sussulto di pudore” quando certi simboli religiosi come il Crocifisso o certe figure come Cristo, che sono parte della tua storia, della tua cultura, della tua identità, vengono offesi, denigrati, infamati.
Ma anche quando ci si indigna, non viene mai meno la consapevolezza di una libertà di espressione che deve esistere e deve essere garantita. Così come deve esistere la libertà di indignarsi. Pacificamente. Ci possono essere atei che non la pensano come me, persone che trasferiscono la religione sul piano politico e ci fanno su della satira alla stregua di qualunque altro fatto o accadimento della vita sociale.
Uno dei temi che ho posto in questi anni, attraverso la mia attività giornalistica, ha riguardato la modalità di finanziamento di certa arte “blasfema” che sempre più spesso trova appoggio nelle Istituzioni pubbliche. In altre parole mi sono sempre chiesta: è giusto che un’amministrazione pubblica finanzi spettacoli, manifestazioni, forme d’arte che possano urtare la suscettibilità anche solo di una parte di cittadini ma che comunque paga le tasse?
Recentemente, ho espresso pubblicamente il mio dissenso per il Vecchione bruciato in piazza a Bologna la notte di Capodanno; un’opera d’arte, un fantoccio dalle sembianze sataniche che in fronte portava impressa una bella Croce. Che in piazza a Bologna, con soldi pubblici, si sia bruciato in qualche modo un simbolo della cristianità a me ha fatto incavolare. Ma non tanto per il fatto che io consideri o meno “arte” quella scultura: ma per le modalità con cui vengono spesi i soldi pubblici, che sono soldi della collettività.
Nel 2010 sono stata tra le prime a portare all’attenzione della stampa locale il contenuto della rappresentazione evidentemente blasfema “Mangiami l’anima e poi sputala”, inserita all’interno di una rassegna finanziata con denaro pubblico in un Comune del Circondario imolese. Lo spettacolo dissacrante, con al centro le tematiche del bigottismo e della fede semplice di una contadina pugliese, proponeva la figura di un Cristo umanizzato che, sceso dalla croce, si metteva a bere, fumare, fare aerobica e sesso. Gli esponenti politici particolarmente sensibili al tema, si ritrovarono davanti alla sede della rappresentazione per un sit-in pacifico. Lo spettacolo andò in scena ugualmente, anche se l’anno dopo la rassegna risultò molto ridimensionata e in seguito non fu più riproposta. C’era tensione, c’erano toni accesi. Ma c’era democrazia. Era la libera espressione di due pensieri, di due modi di concepire la religione e l’arte.
Vedete, noi viviamo in Italia. Un Paese nel quale un Ministro è stato costretto a dimettersi, nel febbraio 2006, per aver indossato una maglietta su cui erano stampate vignette blasfeme contro Maometto. Un’azione che comportò un grave incidente diplomatico con la Libia di Gheddafi. In quell’occasione, le dimissioni di Calderoli erano indubbiamente giuste. Perché Calderoli è un personaggio pubblico e come tale riveste un ruolo e una funzione importantissimi anche nei rapporti con le minoranze religiose che vivono in Italia. Si dimise – appunto – tra l’indignazione generale. Però siamo anche il Paese dei doppi pesi e delle doppie misure. Perché se un Ministro indossa una maglietta con vignette contro Maometto deve dimettersi. Se un sindaco consente che in piazza si bruci una croce, resta al suo posto.
Premesse e spunti di riflessione doverosi per dirvi come la penso sull’attentato a Parigi. Non c’è dubbio che le vignette di Charlie Hebdo – un settimanale che non ha mai usato doppi pesi e doppie misure ma ha colpito indistintamente tutto e tutti – siano blasfeme, oscene e superino di gran lunga il buon gusto che dovrebbe essere il limite cui attenersi quando si fa satira. Ci possiamo chiedere se quel settimanale riceva finanziamenti pubblici e manifestare perplessità su una satira tanto indiscriminata sui temi religiosi. Ma la libertà ci consente di scegliere. Di non comprare un giornale. Di non leggerlo. Di voltarci dall’altra parte. Oppure di manifestare pacificamente il nostro dissenso. Di scrivere una lettera al direttore. Di non andare a uno spettacolo. Di porre questioni morali, etiche. Di aprire dibattiti pubblici. E’ la democrazia. Ma ammazzare qualcuno perché non la pensa come noi, non è più libertà. E’ schiavitù morale. E’ Medioevo culturale. Ed è per questo che oggi siamo tutti Charlie.