Sulla stampa locale di questi ultimi giorni abbiamo letto le statistiche di Coldiretti sul numero di immigrati che lavorano nel settore agricolo (pari a 2/3 dell’intera forza lavoro) e non ce ne siamo affatto stupiti.
Ben prima della devastante crisi economica che ha investito il nostro Paese ed anche Imola tutti sapevamo che oramai in agricoltura poca era la manovalanza italiana.
La risposta per noi è lapalissiana: il capitalismo. Quello più retrivo in cui si ricerca solo il massimo profitto con poca, se non nulla considerazione, dei diritti e della dignità umana.
Il settore agricolo è tra quelli dove il lavoro nero imperversa da sempre con dati molto allarmanti ed è anche il settore dove lo “sfruttamento” del lavoratore è ai massimi livelli.
Il lavoratore migrante, quindi, certamente più debole si è sottoposto a salari ridottissimi, diritti negati e caporalati impronunciabili, oramai da troppi anni in Italia.
Sappiamo che gli agricoltori ora attraversano anche essi un periodo molto nero e magro soprattutto schiacciati da una filiera che certamente non premia il loro indispensabile e durissimo lavoro e che alcuni di loro lo svolgono con abnegazione ed umiltà, ma nella stragande maggioranza di casi si tratta appunto di lavoro nero o lavoro sfruttato, a danno dei migranti.
Ci piacerebbe che gli slogan razzisti, spesso demogogici e atti ad innescare una assurda ed inutile guerra tra poveri, fossero rimpiazzati da una seria analisi della realtà oramai molto corrotta.
Proponiamo quindi politiche agricole per la comunità e integrate al proprio ambiente piuttosto che la soggezione della monocultura della chimica e della modificazione genetica e dello sfruttamento del lavoro umano, migrante o meno.
L’eredità della civiltà contadina del nostro territorio deve tornare ad essere elemento di coesione e resistenza verso un futuro minaccioso.
Un’agricoltura meno capitalista e più umana dove chiunque vi lavori sia rispettato nei suoi elementari diritti e non venga soltanto ed esclusivamente sfruttato.
Non è difficile: troppe inchieste ci hanno dimostrato che tra un prodotto buono ed equo ed uno derivante dallo sfruttamento del lavoro e della chimica la differenza di prezzo non è così rilevante da giustificare dette inumane condizioni.
Suggeriamo l’utilizzo della filiera corta (km. 0) tra produttore e consumatore e di utilizzare o creare gruppi di acquisto solidale, nell’auspicio che il nostro territorio riprenda una vocazione di agricoltura di qualità.